Per la ripresa della Messa festiva con i fedeli, disaccordo tra CEI e Governo
Stato e Chiesa indipendenti e sovrani, da ribadire a margine del fermo (non adirato!) “disaccordo” dei vescovi italiani. Credo che in breve si possa sintetizzare così, l’attuale “querelle” tra CEI e Governo italiano, partendo dall’art.7 della nostra Costituzione, che, parlando di indipendenza dell’uno dall’altro, ciascuno nel proprio ordine, continua col dire che i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Che ultimi sono stati oggetto di revisione concordata nel febbraio 1984, per rimarcare a vantaggio della persona tanto “il rispetto dei principi di laicità dello stato quanto quello del pluralismo religioso“, entrambi in sintonia con la più matura sensibilità culturale, già ampiamente accolta dai documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965.
Una “querelle” che alcuni esagerando definiscono scontro frontale senza precedenti, sulla celebrazione della Messa col popolo, in questa seconda fase di lotta al coronavirus, il cui inizio è programmato il prossimo 4 maggio. – (nella foto accanto, il Presidente del Consiglio prof. Giuseppe Conte)
Di fronte a talune aperture graduali del Governo per alcune categorie di attività sociali, i Vescovi italiani hanno subito scritto, a tamburo attente, in un comunicato ufficiale che “non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto”. Un’espressione che fa chiaramente capire che da parte del Governo, a giudizio dei Vescovi, c’è stata scarsa attenzione a quella leale collaborazione da loro invocata. Difficile capire il perché, anche alla luce dei principi costituzionali, che sanciscono che il diritto di culto – dicono i giuristi – è “un diritto costituzionalmente protetto e non comprimibile mentre non esiste un diritto allo stadio”.
E qui c’è chi parla di un preconcetto infondato che le Chiese, a differenza di altri luoghi d’incontro, siano luoghi di contagio.E comunque anche se così fosse (cosa che non risulta!) lo Stato ha sì il potere, in caso di emergenza sanitaria, di normare tutto quello che riguarda il numero delle persone, come partecipazione, mascherine, guanti, e quant’altro per evitare il contagio. Però, non può dire quella Messa sì, e questa no. Perché non spetta allo Stato, ma solo alla Chiesa, decidere quali celebrazioni tenere e quali non tenere, nell’esercizio esclusivo dell’ attività pastorale e del culto.
Basta solo questo per capire come opportuna venga giudicata in questo momento la voce di ammonimento di Papa Francesco che parla di “prudenza e di obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni”. Una grazia che il Papa invita tutti a chiedere nella preghiera al Signore, senza dare ascolto a chi subito, con superficialità e disinvoltura, si è premurato di osservare che il Papa, “ha detto la sua e si è smarcato dalla CEI”.
Un’osservazione sicuramente fuori posto, perché il senso del richiamo è per tutti, ognuno nel suo ruolo, senza sconfinamenti di campo, dovendo tutti usare prudenza ed obbedienza alle norme, comprese o forse anzi a partire da quelle di valenza costituzionale.
Ma nel dibattito in corso, oltre a certa superficiale osservazione, non mancano talune valutazioni più serie e di fondo, che vogliono leggere la realtà senza paraocchi, invocando l’avvio di una nuova linea pastorale.
Perché quello che viene definito un passo falso del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sarebbe il frutto di una “logica presente ormai nella cultura degli italiani e anche, purtroppo dei cattolici. Cioè che la Chiesa non è culto e adorazione di Dio, ma filantropia. Ad essa si ricorre quando si ha di bisogno, soprattutto per le esigenze materiali”. La parte spirituale non conta o assai poco interessa.Per cui andare a Messa non è essenziale. Quindi se ne può fare a meno e perciò diventa normale chiudere le chiese al culto dei fedeli”. E si aggiunge che: “continuare ancora a dare i sacramenti a tutti nuoce alla fede perché ha già portato i cattolici a considerare la Chiesa come “stazione di servizio”, ove si va, solamente quando se ne ha il bisogno ed esigenza”. Anche per gli stessi sacramenti, si afferma che si chiederebbero molto spesso solo per motivi sociali.
Come si vede per i pastoralisti materia su cui riflettere ce n’è proprio abbastanza. E chissà se dopo il coronavirus non si debba avviare davvero una nuova e radicalmente diversa metodologia pastorale.
Chissà se in alcuni punti, anche in Agrigento, non debba ritenersi necessario ripensare qualche punto del compianto don Gerlando Lentini (1930-2019) (nella foto), su cui chi scrive tante volte non si è trovato d’accordo, così come tanti o quasi tutti i pastoralisti diocesani, specie curiali. E cioè, quello che ha dichiarato don Gerlando, rispondendo ad una precisa domanda di un lettore sul suo periodico La Via; che cioé “Essere cattolici oggi significa quel che ha sempre significato: fedeltà a Cristo e alla sua chiesa sia da preti che da laici, sia in famiglia che sul luogo di lavoro, sia in economia che in politica. Il vangelo, infatti, è totalizzante, anche se non totalitario nè integralista; il che significa che è una proposta da accogliere e da praticare liberamente, ma non d’imporre mai e poi mai con violenza fisica o morale”.
Ed intanto i Vescovi italiani e quelli siciliani in piena consonanza, quasi a rispondere ad osservazioni del genere subito nella loro Nota di “disaccordo” con il premier Giuseppe Conte, dopo aver detto di non potere “accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto”, hanno subito aggiunto: “ Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. Una considerazione quest’ultima in cui si concentra tutto il problema.
(nella foto il Presidente della CEI, Card. GUALTIERO BASSETTI)
Diego Acquisto
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