Educazione. Meglio a casa con la mamma. Ma fino a che età?
Buone prassi che vanno dalla condivisione dei carichi di cura alle misure di welfare aziendale, che si stanno rapidamente diffondendo. Sono i dati della ricerca a confermarlo. Due grandi aziende su tre (60%), per esempio, sono impegnate in attività di informazione sull’esistenza del congedo di paternità obbligatorio, rispetto al 46% delle piccole aziende. Che però sono quelle maggiormente occupate nell’estendere la durata del congedo di paternità (29, 8%) in confronto a quelle di grandi dimensioni (26,0%). Altrettanto condivisa l’intenzione di implementare nidi aziendali o convenzioni con asili nidi sul territorio. Su questo fronte si attiva il 31,1% delle piccole e medie imprese e il 32,9% delle grandi.
Fin qui le buone notizie. Le note dolenti arrivano quando si passa ad analizzare il contesto reale di casa nostra, fatto di luci e ombre. Rispetto alle nazioni comprese nella rilevazione, l’Italia è l’ultima, per numero di coppie con figli da 0 a 14 anni, dove lavorano entrambi i partner (51,1%). Situazione che si presenta invece nel 63,2% dei casi in Spagna, nel 69% in Germania, nel 69,2% in Francia, nel 78% in Olanda e nel 78,9% in Svezia. Una sproporzione che emerge più chiaramente a proposito dell’inattività femminile, ambito in cui il Belpaese presenta il tasso più alto in Europa, 31%, contro la media dell’Ue del 18,2%. Abbiamo poi la più ampia quota di donne che lavora in part-time involontario, il 51,7% rispetto al 19,6% della media europea. A dirla lunga sul gap sono i numeri che riguardano le dimissioni: sulle oltre 70 mila richieste avanzate nel 2022 ben il 75,4% è stato presentato dalle donne e solo il 24,6% dagli uomini. E a motivare la grande prevalenza delle domande da parte delle lavoratrici (41,7%) è risultata la difficoltà di conciliazione a causa della mancanza di servizi per la cura dei figli.
L’Italia poi, svela lo studio, è anche il Paese in cui è maggiormente radicata una cultura basata sulle differenze di genere, quello in cui emerge la più alta percentuale di accordo con l’affermazione per cui «se c’è poco lavoro è giusto vada data priorità agli uomini» (25,4% rispetto a una media Ue dell’11,4%). Al contrario, i modelli culturali più virtuosi si trovano nei Paesi Bassi e in Svezia, in disaccordo con questa visione nell’ordine degli 80-90 punti percentuali. Che il nostro sia un Paese dominato dagli stereotipi lo confermano i risultati della World Values Survey (WVS), un’ampia indagine condotta ogni 5 anni su 100 nazioni. Dalla ricerca emerge che il nostro è l’unico Paese in cui più di metà dei rispondenti (54,1%) pensa che «una madre che lavora danneggia i figli in età prescolare» (contro una media Ue del 30%).
Ma da un punto di vista pedagogico è vero che l’assenza della mamma, per diverse ore della giornata, potrebbe creare reali disagi nello sviluppo di un piccolo? « È la scienza a dirci che la presenza materna è indispensabile per la crescita di un bambino, soprattutto nei suoi primi mesi di vita», chiarisce Silvia Da Dalt, educatrice profesmadre sionale socio-pedagogica, autrice del testo L’attaccamento sicuro da poco pubblicato dalle Edizioni San Paolo. «Una teoria nata negli anni Sessanta dallo psicoanalista inglese John Bowlby, che studia proprio la relazione tra la e il bambino e permette di capire in che modo il legame che si instaura tra i due è in grado di influenzare lo sviluppo affettivo e sociale del piccolo». L’educatrice spiega che in base all’accudimento materno il bambino matura un particolare stile di attaccamento che, in estrema sintesi, può essere definito come sicuro o insicuro, dal quale dipenderà il suo equilibrio affettivo e il suo modo di relazionarsi agli altri.
«Una madre attenta a percepire e interpretare correttamente le richieste del figlio saprà trasmettere quell’attaccamento sicuro che rappresenterà sempre per lui un fattore di protezione emotiva. Detto questo – precisa l’esperta – la presenza della mamma non va intesa con rigidità nevrotica. Il piccolo ha assolutamente bisogno del cosiddetto “materno”, una cura sensibile e costante che comunque non deve necessariamente venire da un’unica presenza. A fornirgliela può essere anche un altro caregiver che si affianchi alla mamma: il papà, la nonna, anche la baby sitter. A patto però che l’accudimento da parte di più figure sia coerente, altrimenti il bambino potrebbe confondersi e il suo sviluppo risentirne». L’autrice precisa poi che «tra i 12 e i 18 mesi, una volta instaurato il legame di attaccamento, il bambino è pronto a staccarsi perché avrà ormai raggiunto la capacità di separarsi senza disagi dalla figura di attaccamento».
Ma il dato più importante da tenere presente è un altro: « I primi 5 mesi dopo il parto invece sono delicati e importanti», fa presente l’esperta. « La madre che lavora deve poter contare sulla massima flessibilità. Occorre quindi che lo Stato aiuti le aziende a prevedere misure che le consentano di lavorare da casa, o di fare affidamento su asili nidi aziendali. Ricordiamoci: sostenere una donna che diventa madre non significa solo realizzare il suo benessere e quello del figlio, ma – conclude Silvia Da Dat – anche contribuire concretamente a una società più sostenibile».