A Trieste la 50ma Settimana sociale dei cattolici in Italia….il discorso di MATTARELLA
Iniziata il 3 luglio, si concluderà domenica 7 luglio, la Settimana sociale dei cattolici italiani,… la 50ma…, questa volta a Trieste, così come deciso in precedenza, dopo che, lo scorso 18 febbraio ad Assisi si è concluso l’ottavo seminario nazionale di pastorale sociale.
Da quello che si legge sui social, saranno giorni di particolare impegno per tutti i rappresentanti delle oltre duecento diocesi italiane, ognuna delle quali, così come la nostra arcidiocesi agrigentina , ha in Curia un “Ufficio per i problemi sociali ed il lavoro”, in atto, egregiamente retto da don Mario Sorce, ,… a cui bisogna aggiungere la rappresentanza delle tante associazioni culturali e di impegno nel sociale che operano in Italia, e che si rifanno alla Dottrina Sociale della Chiesa (DSC).
Come è facile notare dal programma, reperibile sul web, i giorni di Trieste saranno di riflessione, di approfondimenti, di spiritualità, di relazioni, ma soprattutto giorni di laboratori in cui sperimentare – confrontandosi sulle tematiche di più drammatica attualità, quali ecologia integrale, lavoro, democrazia, partecipazione, amicizia sociale….ecc….ecc. In questa tappa decisiva a Trieste dal 3 al 7 luglio, il tema di fondamentale importanza, riguardante la democrazia e quindi il dovere della partecipazione. “Al cuore della democrazia”…. il tema preciso della cinque giorni, che sarà aperta dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e chiusa da Papa Francesco.
Da quanto si vede nella strutturazione del programma, il metodo di lavoro che verrà utilizzato a Trieste dai delegati sarà quello del confronto tra tutti, – e si sottolinea che si vuole trovare, costantemente, come punto unificante di forza, la partecipazione… e nella partecipazione favorire in ogni modo, l’emersione di un’intelligenza collettiva. “Il tema del metodo non è secondario – ha commentato don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei – perché il metodo è anche già un contenuto, cioè ci permette di far capire che ogni persona, in qualche modo, può offrire un contributo al bene comune”. Il valore aggiunto – si precisa – vuole essere quello di un impegno non solitario, ma inserito in una rete che offra una “compagnia” che spesso manca ai credenti (ma più in generale alle persone di buona volontà)…. quelle che vogliono contribuire al bene comune.
Da questo nostro Angolo vogliamo far giungere i nostri auguri di buon lavoro, facendo nostro il pensiero di Nicola Campanile presidente dell’Associazione, “Per le persone e la comunità”, che dice: “Sappiamo che questo tempo non consente “nostalgie”, ma opportunità di processi e percorsi ne offre in misura straordinaria. Dobbiamo coglierle, per quanto nelle nostre possibilità, anche per non avere altri rammarichi e rimpianti. Perché, questo sì, di rammarichi e rimpianti ne dovremmo avere, come laici credenti, sull’evoluzione del quadro politico negli ultimi 30 anni e per il degrado dell’azione amministrativa sui territori, quantomeno nel Sud Italia. Abbiamo commesso un peccato di omissione, ma non serve piangerci addosso: piuttosto trasformiamo questa consapevolezza in leva per abbandonare definitivamente, come laici credenti, l’abito dell’indifferenza o, al massimo, dell’analisi da salotto. Già sarebbe tanto”.
Diego Acquisto–2-7-2024
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Settimane Sociali. Renna: «La democrazia può guarire con dialogo e confronto»
Mimmo Muolo martedì 2 luglio 2024—-AVVENIRE
L’arcivescovo di Catania, monsignor Luigi Renna presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali, non nasconde la crisi e si dice preoccupato per l’astensionismo. «Ma i cattolici ci sono e possono fare molto»
La democrazia in Italia ha bisogno non solo di un check up, ma anche di chiare indicazioni “terapeutiche”. E la Settimana sociale di Trieste, secondo monsignor Luigi Renna, può offrirle. Alla vigilia dell’evento l’arcivescovo di Catania e presidente del Comitato organizzatore, oltre che della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, offre il suo punto di vista.
Qual è dunque lo stato di salute della nostra democrazia?
I dati dell’astensione alle ultime elezioni europee e amministrative testimoniano la crisi. Ma vogliamo reagire a questo stato di cose con la terapia del dialogo, del confronto e delle nuove prospettive. Nella società civile i cattolici ci sono. Hanno bisogno però di sapersi esprimere anche nelle istituzioni e di incoraggiare altri a farlo.
L’astensionismo come sintomo delle crisi ha delle cause?
La crisi è culturale, e questo vuole dire che abbraccia sia la politica, sia altri ambiti, prima di tutti il modo di porsi di fronte all’altro. Statistiche molto accreditate rilevano come rispetto a dieci anni fa sia diminuito non solo il numero di chi vota, ma anche quello dei volontari. Certamente la legge elettorale, le modalità con cui vengono scelti i candidati, la distanza di essi (soprattutto per quanto riguarda il parlamento di Strasburgo) dal resto della società civile sono concause. Ma la crisi è trasversale. Tuttavia non possiamo rassegnarci, dato che il Vangelo ci rimanda a un impegno nella storia e la Dottrina sociale della Chiesa (Dsc) ci spinge a essere presenti con responsabilità per costruire il bene comune.
Giovanni Paolo II avvertiva che una democrazia senza valori può risolversi nel suo contrario. Siamo arrivati a questa fase?
Credo che la visione antropologica, dalla quale discende la visione della comunità e dello Stato, non sia indifferente ai mezzi e alle forme che aiutano a realizzare la democrazia. Quando la finalità è quella di costituire una città dell’uomo, un Paese, un’Europa in cui non c’è al centro la persona umana con i suoi diritti, priviamo la nostra società e le nostre istituzioni dell’essenziale. Non dimentichiamo che il concetto di dignità della persona, di ogni persona, anche di chi viene da fuori, è il frutto della convergenza del pensiero cristiano, con la filosofia greca e con il diritto romano. L’Europa nasce da queste diverse anime. Papa Francesco parla di attaccamento al bene. Senza questo, avremmo uno Stato che si concentra sui privilegi di pochi e ahimè di alcune oligarchie.
C’è un pericolo fascismo attualmente in Italia?
Io credo che il pericolo sia bipartisan. Se da una parte vediamo il saluto romano, dall’altra abbiamo richieste molto radicali che vanno nella direzione, ad esempio, di inserire nella legislazione europea il diritto all’aborto e questa è una deriva radical chic di sinistra. Non fare i conti con il proprio passato, per gli italiani di destra e di sinistra, significherebbe ripetere gli stessi errori della polarizzazione che non portano a niente.
Che cosa è dunque lecito aspettarsi da questa Settimana?
Anzitutto il dialogo che tante volte non si riesce ad avere, perché mancano i luoghi di confronto. Le tematiche che affronteremo nelle piazze della democrazia che ci saranno a Trieste, permetteranno ai cattolici, anche con orientamenti diversi, di confrontarsi. Il primo successo sarebbe questo ed è da auspicare che avvenga. Perché i delegati esprimono la vita delle nostre comunità ecclesiali.
A questo proposito, dato che dalla fine dell’unità politica, i cattolici sembrano aver perso peso specifico e rilevanza, è auspicabile il ritorno a una forma di rappresentanza unitaria?
L’impegno a costituire forze politiche centriste non è negli obiettivi della Settimana sociale. Ciò non toglie che i cattolici possano guardare a dei progetti condivisi. Soprattutto, però, la convergenza deve essere sui valori, come sempre viene rimarcato dai Vescovi. A titolo personale posso aggiungere che non sempre i cattolici sono stati presenza critica all’interno dei partiti e hanno lasciato che alcune posizioni si estremizzassero. Io non credo che si riesca a costituire oggi una nuova Dc. Quello che auspico è che dovunque i cattolici si trovino siano una presenza pensante, critica rispetto alle ideologie e convergente su alcuni aspetti fondamentali: ad esempio diritto alla vita, diritto dei lavoratori e accoglienza nella legalità dei migranti.
Qualcuno ha accusato questa Settimana sociale di guardare troppo a sinistra. Qualcun altro di scarsa sensibilità verso la Dsc. Come risponde?
Mi meravigliano molto queste osservazioni. Basta leggere il documento preparatorio e vedere che fa riferimento alla Fratelli tutti. Così come la settimana sociale di Taranto faceva riferimento alla Laudato si’. Mi sembra che si voglia ingabbiare la Settimana sociale in schemi ideologici, mentre l’atteggiamento dei delegati e della stessa Chiesa non è quella di dover difendere una ideologia, ma una profezia, quella appunto della Dsc. Nella Fratelli tutti, papa Francesco ha avuto parole molto chiare sul populismo, sulla deriva alla quale ci può portare l’uomo solo al governo e sulla mancanza di dialogo sociale. Dobbiamo costruire non un mondo di soci, ma di fratelli. E perciò il Papa ci presenta l’icona del buon Samaritano, il metodo del dialogo sociale, e guarda anche a coloro che dal basso costruiscono la realtà di un popolo, quelli che egli chiama i poeti sociali. Come ha detto anche Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, la divisione non appartiene alla vocazione cristiana.
Al centro del dibattito politico, oggi ci sono riforme come il premierato e l’autonomia differenziata. Che spazio avranno a Trieste?
Questi temi non sono all’ordine del giorno. Se ne sta parlando in Parlamento ed è giusto che il confronto avvenga là. Ma ciò non significa che i cattolici non possano dibattere su queste tematiche. Hanno già cominciato a farlo e credo che continueranno legittimamente, ma non in questi giorni di Trieste. Da parte mia posso dire che in discussione non è la legittimità di fare le riforme, ma come ha detto anche il cardinale presidente della Cei, Matteo Zuppi, la necessità di farle con larghe intese. Con delle maggioranze che non raggiungono grandi livelli e che non dicono una condivisione totale, il timore è che si esasperino le posizioni.
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Card. Zuppi: “Non c’è democrazia senza un ‘noi’”
3 LUGLIO 2024
Pubblichiamo l’intervento del Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, alla cerimonia di apertura della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia.
Ringrazio il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per la sua presenza che onora questa Settimana e lo ringrazio per il suo servizio di custode e garante della democrazia e dei valori della nostra Repubblica e dell’Europa. Rivolgo un saluto al Presidente della Regione Autonoma del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, al quale va il nostro grazie per l’accoglienza e la disponibilità. Saluto la città di Trieste, con le Autorità civili e religiose – il Prefetto Pietro Signoriello, il Sindaco Roberto Dipiazza e il Vescovo Enrico Trevisi – i rappresentanti delle Chiese e delle Comunità religiose. Rivolgo un caro benvenuto a tutti i partecipanti alla 50ª Settimana Sociale dei cattolici in Italia.
Siamo molto contenti di questo prestigioso traguardo. Dal 1907 a oggi il cattolicesimo italiano non è rimasto a guardare, non si è chiuso in sacrestia, non si è fatto ridurre a un intimismo individualista o al culto del benessere individuale, ma ha sentito come propri i temi sociali, si è lasciato ferire da questi per progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale (FT 180). —Ha pensato e operato non per sé ma per il bene comune del popolo italiano. E il bene comune non è quello che vale di meno, ma è quello più prezioso proprio perché l’unico di cui tutti hanno bisogno e che dona valore a quello personale. Questa è la bellezza della Chiesa cattolica, con i suoi limiti e miserie umane, ma che, come diceva De Lubac, “presenta un carattere eminentemente sociale, che non si potrebbe misconoscere senza falsarla”. Andiamo fieri di questa storia e siamo felici di vivere questi giorni a Trieste, in una terra di confine, segnata dal dialogo interculturale, ecumenico e interreligioso, da tanta sapienza antica e recente, porta che unisce est e ovest, nord e sud, ma anche terra segnata da ferite profonde che non si sono del tutto rimarginate. I troppi morti ci ammoniscono a non accettare i semi antichi e nuovi di odio e pregiudizio. Non vogliamo che i confini siano muri o, peggio, trincee, ma cerniere e ponti! Lo vogliamo perché questo è il testamento di chi sulle frontiere ha perso la vita. Lo vogliamo per quanti, a prezzo di terribili sofferenze, si sono fatti migranti e chiedono di essere considerati quello che sono: persone! Il Vangelo ci aiuta a capire che siamo fatti gli uni per gli altri, quindi gli uni con gli altri. La nostra casa comune richiede un cuore umano e spiritualmente universale. De Gasperi e gli altri Padri fondatori dell’Europa sono stati animati – sono parole sue – “dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa”. Ed è significativo che lo statista trentino usasse la parola patria sia per l’Italia, sia per l’Europa senza avvertire contraddizioni. I cristiani prendono sul serio la patria, tanto che sono morti per essa, ma sanno anche che c’è sempre una patria in cielo e questo ci rende familiari di tutti e a casa ovunque. Grazie, quindi, alla splendida e accogliente città di Trieste. È bello ritrovarci da ogni Regione e Diocesi d’Italia in una terra che ci parla dell’opportunità e della bellezza di vivere insieme.
La Chiesa è madre di tutti, perché solo guidata dal Vangelo. Leggere e qualificare le sue posizioni in un’ottica politica, deformando e immiserendo le sue scelte a convenienze o partigianerie, non fa comprendere la sua visione che avrà sempre e solo al centro la persona, senza aggettivi o limiti. Nel gennaio 1994, in un momento molto difficile quando – come diceva allora qualcuno – c’era il rischio che l’Italia cessasse di essere una nazione, Giovanni Paolo II scrisse ai vescovi italiani esortandoli a testimoniare “quell’eredità di valori umani e cristiani che rappresenta il patrimonio più prezioso del popolo italiano” e che declinava come “eredità di fede”, “eredità di cultura” ed “eredità dell’unità”. “Certamente oggi è necessario un profondo rinnovamento sociale e politico”, aggiungeva allora il Papa, e perciò “i laici cristiani non possono […] sottrarsi alle loro responsabilità”. La pace e lo sviluppo non sono beni conquistati una volta per tutte. Richiedono un “amore politico” che deve assumere l’unità come un obiettivo da perseguire, da difendere e da far crescere, perché l’unità non è mai statica, ma sempre dinamica!
«Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro» è il tema che ci trova riuniti. Non vogliamo accontentarci di facili lamentele sulla crisi della democrazia e sulla scarsa partecipazione al voto. Ci impegniamo per risposte positive, consapevoli, condivise, possibili. Per questo, desidero rivolgere un convinto grazie. Grazie a chi continua a partecipare nonostante la crisi del “noi” perché la Chiesa è un luogo dove ci si appassiona al prossimo e, quindi, al dialogo, come è avvenuto in assemblee, convegni, riunioni, nel cammino sinodale, proprio per il suo carattere eminentemente sociale e non egocentrico o di massa. Grazie a chi non si scoraggia. Grazie a tutti quelli che con tenacia stanno favorendo esperienze di partecipazione. Grazie agli amministratori che, pur tra sacrifici, si dedicano al bene comune e a quanti esercitano funzioni pubbliche e le adempiono con disciplina e onore (Costituzione, art. 54). Grazie a chi svolge umilmente, secondo le proprie possibilità e scelte, “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (Costituzione, art. 4). È così che si costruiscono inclusione e convivenza, si vincono i pessimismi, si sconfiggono le furbizie che piegano a interesse privato il bene pubblico. Grazie alle tante buone pratiche che sono arrivate qui, a Trieste, per farsi conoscere, ma anche alle centinaia di buone pratiche sparse per il Paese che continuano a rendere concreti i frutti della partecipazione. Grazie a chi si impegna nel volontariato, che poi vuol dire gratuità, dono, umanità, costruzione di comunità.
Accanto al grazie, rivolgo un affettuoso incoraggiamento agli sfiduciati, a chi è ai margini della strada, a chi si sente escluso e incompreso, ai poveri, a chi chiede riconoscimento e non lo trova, a chi ha perduto la speranza. Viviamo tutti una stagione difficile e complicata. Cerchiamo di essere all’altezza della sfida. La Chiesa parla perché è libera e ha uno sguardo amorevole e benevolo verso ciascuno: di tutti è amica e preoccupata, nessuno è per lei nemico. Per questo, come Chiesa, di tempo in tempo, con la nostra esperienza umana dell’Italia, maturata tra la gente, esprimiamo “preoccupazioni”: sono testimonianze della realtà e dei suoi angoli dimenticati, sono offerte di dialogo in spirito di franchezza e collaborazione. Romano Guardini ha scritto che la democrazia non è solo un ordinamento che nasce dalla responsabilità dei singoli, ma fa riferimento anche al fatto che «ciascuno di questi singoli può fidarsi degli altri, perché sa che tutti vogliono il bene comune; lo vogliono effettivamente e non soltanto dicono di volerlo. La democrazia è tanto più reale quanto più questo atteggiamento è operante»[1]. Perciò, come ha suggerito papa Francesco in Evangelii gaudium, «non lasciamoci rubare la speranza»! (EG 86), cadendo nell’apatia o nella rassegnazione, perché la nostra democrazia può e deve essere migliore e più inclusiva.
Quale contributo, allora, può offrire la Chiesa all’Italia in questa stagione storica? La Chiesa non rivendica privilegi, non li cerca, ben consapevole di come questi in passato l’hanno fatta percepire preoccupata per sé e meno madre. Ci sentiamo parte di un Paese che sta affrontando passaggi difficili e crisi epocali: basti pensare all’inverno demografico, alla crescita delle disuguaglianze, alle percentuali di abbandono scolastico, all’astensionismo e alla disaffezione sempre più numerosa alla partecipazione democratica, alla vita scartata che diventa insignificante per l’onnipotenza che si trasforma in nichilismo distruttivo di sé stesso. Sentiamo la sfida dell’accoglienza dei migranti, della transizione ecologica, della solitudine che avvolge molte persone, della difficoltà di spazi per i giovani, dell’aumento della conflittualità nei rapporti sociali e tra i popoli, infine della guerra che domina lo scenario internazionale e proietta le sue ombre su tutto questo. Ci angoscia il fatto che oggi i “poveri assoluti” siano cresciuti fino a diventare più di 5 milioni e mezzo: 1 su 10, tantissimi. Dovremmo interrogarci con severità: come è possibile?
Quante risorse sprecate, quante opportunità perdute, quanti campi in cui è urgente una maggiore solidarietà! Pensiamo agli anziani dei quali dobbiamo proteggere la fragilità, ai disabili, ai giovani che sentono di non avere un futuro ma in realtà lo cercano, alle donne vittime della violenza maschile, a chi lavora in condizioni inaccettabili, alla casa senza la quale non c’è integrazione e nemmeno famiglia e futuro. La solidarietà è verso tutti, non guarda il passaporto perché tutti diventano il nostro prossimo e parte nel nostro futuro. Questo, però, lo costruiamo oggi e raccoglieremo e raccoglieranno quello che oggi seminiamo! L’indicazione evangelica e la Dottrina sociale della Chiesa rappresentano tanta parte dell’umanesimo che è – questa sì! – la vera identità del nostro Paese e che per questo mantiene lo sguardo critico verso possibili derive della convivenza civile.
Ecco quale è la vera rilevanza della Chiesa e dei cristiani: l’amore per Cristo che la porta necessariamente a quello per i suoi fratelli più piccoli! “Se condividiamo il pane del cielo, come non condivideremo quello della terra?”, ricordava il Cardinale Lercaro. Satnam Singh sognava il futuro e lavorava per ottenerlo: è uno di noi, lo ricordiamo con commozione e la sua vicenda è un monito che svela l’ipocrisia di tante parole che purtroppo rimangono tali e, quindi, beffarde. Sentiamo totalmente estraneo a noi il caporalato, la disumanità, lo sfruttamento delle braccia che dimenticano e umiliano la persona che offre le sue braccia. La persona che lo aveva ospitato ha detto di avergli dato il posto perché ricordava come suo papà emigrato dormisse nelle cabine telefoniche in Svizzera. La solidarietà presidia e difende la vita di tutti, tutela il diritto a nascere come quello ad essere curati e accompagnati fino alla fine, difesi dal dolore e senza che nessuna logica o calcolo affretti la morte di nessuno. La solidarietà è un motore invisibile ma indispensabile di tutta la vita collettiva. La sua mancanza indebolisce il tessuto sociale, ostacola la crescita economica, offende l’individuo e non ne sa valorizzare le capacità e, alla fine, svuota la democrazia. La solidarietà passa attraverso le comunità in cui l’uomo vive: le comunità ecclesiali e le tantissime realtà di libero e gratuito altruismo, la famiglia ma anche le comunità locali e regionali, la nazione, il continente, l’umanità intera.
Oggi la democrazia soffre perché le società sono sempre più polarizzate, attraversate cioè da tensioni sempre più aspre tra gruppi antagonisti, dominate dalla contrapposizione amico-nemico, dalla pervasiva convinzione che l’individuo è tale quando è al centro, mentre è solo nella relazione che la persona comprende il suo valore. Le pandemie ci hanno fatto comprendere il senso di comune appartenenza, di comunità di destino, di partecipazione a una vicenda collettiva. Non c’è democrazia senza un “noi”. Non c’è persona senza l’altro. La democrazia non solo afferma la libertà, ma promuove anche l’uguaglianza, non proclama astrattamente i diritti, ma difende concretamente la dignità umana soprattutto dove è più pesantemente violata. Ecco perché la democrazia non vuol dire solo istituzioni, leggi e procedure, diritti e doveri, ma anche inclusione dell’altro, del fragile, dell’emarginato. Vuol dire contrasto alla cultura dello scarto, alle dipendenze con le loro drammatiche conseguenze in tante violenze, alle condizioni indegne nelle carceri, ai tanti feriti della malattia psichiatrica.
Ben vengano nuove forme di democrazia incentrate sulla partecipazione: questa Settimana Sociale è dedicata in larga parte proprio alle buone pratiche partecipative di democrazia. Siamo contenti quando i cattolici si impegnano in politica a tutti i livelli e nelle istituzioni. Siamo portatori di voglia di comunità in una stagione in cui l’individualismo sembra sgretolare ogni costruzione di futuro e la guerra appare come la soluzione più veloce ai problemi di convivenza. I cattolici in Italia desiderano essere protagonisti nel costruire una democrazia inclusiva, dove nessuno sia scartato o venga lasciato indietro. Anche, per questo, dobbiamo essere più gioiosamente e semplicemente cristiani, disarmati perché l’unica forza è quella dell’amore.
L’Enciclica Fratelli tutti ci offre un orizzonte concreto, possibile, attraente, condiviso. Un unico popolo. Perciò, guardiamo con preoccupazione al pericolo dei populismi che, se non abbiamo memoria del passato, possono privarci della democrazia o indebolirla! La partecipazione, cuore della nostra Costituzione, consente e richiede la fioritura umana dei singoli e della società, accresce il senso di appartenenza, educa ad avere un cuore che batte con gli altri, pur tra le differenze. Quando la gente si sente parte, avviene il miracolo dell’umanizzazione dei rapporti sociali ed economici: ciò si realizza nei corpi intermedi, nelle istituzioni, sui territori, nelle grandi aree metropolitane e nelle aree interne, al Nord come al Sud. È bello per noi iniziare la Settimana Sociale in questa città di frontiera. Vogliamo incarnare uno stile inclusivo, di unità nelle differenze. Soprattutto vogliamo esprimere tutto l’amore di cui siamo capaci per il nostro Paese. Amiamo l’Italia e, per questo, ci facciamo artigiani di democrazia, servitori del bene comune.
Grazie Presidente Sergio Mattarella, perché ha voluto essere presente con noi a inaugurare giorni di impegno. Buona Settimana Sociale a tutti, tanta visione per il futuro, pronti a pagare il prezzo della speranza e del sacrificio necessario per costruire il domani di un Paese per tutti, con al centro la persona! E così è già più bello per noi!
[1] R. Guardini, Opera Omnia VI. Scritti politici, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 20182, 539.
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Il Presidente Mattarella
alla Settimana Sociale dei Cattolici. Presente il vescovo di Cefalù
4 Luglio 2024
Al via a Trieste la 50^ edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia. E’ presente anche una delegazione della Diocesi di Cefalù , guidata da S.E. Mons. Giuseppe Marciante. Ad aprire i lavori l’intervento del Presidente della Repubblica.
Queste le parole del Presidente Mattarella
Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Conferenza Episcopale, ai Vescovi presenti, al Nunzio Apostolico; alle autorità di questa splendida parte dell’Italia, il Presidente della Regione, il Sindaco, gli altri Sindaci presenti; a tutti voi, ringraziandovi per l’invito e, soprattutto, per quello che fanno le Settimane Sociali.
Democrazia.
Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo.
Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere. Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera.
Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte.
Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della posizione propria.
Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro.
L’interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di rispetto reciproco.
Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima.
Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia.
O questa si traduce soltanto in un metodo?
Cosa la ispira?
Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre Istituzioni e la vita civile della nostra comunità?
È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa.
Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali, naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno.
Intervenendo a Torino, alla prima edizione della Biennale della democrazia, nel 2009, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico occidentale.
Dopo la “costrizione” ossessiva del regime fascista soffiava “l’alito della libertà”, con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini.
L’alito della libertà, anzitutto, come rifiuto di ogni obbligo di conformismo sociale o politico, come diritto all’opposizione.
La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando, naturalmente, l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”.
Perché – come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.
È la pratica della democrazia che la rende viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.
Quali le ragioni del riferimento all’alito della libertà parlando di democrazia?
Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa.
Il tema impegnativo che avete posto al centro della riflessione di questa Settimana sociale interpella quindi, con forza, tutti.
La democrazia, infatti, si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità.
Si può pensare di contentarsi che una democrazia sia imperfetta?
Di contentarsi di una democrazia a “bassa intensità”?
Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”?
Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori? Per porre mente alla defezione, diserzione, rinuncia intervenuta da parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.
Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare.
Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino si trovi nelle condizioni di potere, appieno, prender parte alla vita della Repubblica.
I diritti si inverano attraverso l’esercizio democratico.
Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza.
Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori.
Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.
Ci soccorre anche qui Bobbio, quando ammonisce che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”.
Una democrazia “della maggioranza” sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.
Al cuore della democrazia – come qui leggiamo – vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione.
Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue Istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune.
Se non si cede alla ossessiva proclamazione di quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione.
Se l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio, se la solidarietà resta il tessuto connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa, consapevole del proprio valore e della propria necessità, della propria essenziale necessità.
Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie.
Oggi constatiamo criticità inedite, che si aggiungono a problemi più antichi.
La democrazia non è mai conquistata per sempre. Anzi, il succedersi delle diverse condizioni storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento, costante invera-mento.
Nella complessità delle società contemporanee, a elementi critici conosciuti, che mettono a rischio la vita degli Stati e delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.
Le nostre appaiono sempre più società del rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni meramente tecnocratiche.
È tutt’altro che improprio, allora, interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati, proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo “spazio pubblico” in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.
Nel corso del tempo, è stata più volte posta, malauguratamente, la domanda “a cosa serve la democrazia?”. La risposta è semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra Costituzione – e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità.
Karl Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzino, essenzialmente, quella “società aperta” che può massimizzare le opportunità di costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno politico e istituzionale.
La stessa esperienza italiana degli ultimi trentanni ne è un esempio.
Nei settantotto anni dalla scelta referendaria del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito, al “cantiere aperto” della nostra democrazia repubblicana, con la diversità delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono derivate.
La libertà di tradizione liberale ci richiama a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e alla indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e, ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione di interessi.
La libertà espressa nelle vicende novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella società in permanente trasformazione.
È questione nota al movimento cattolico, se è vero che quel giovane e brillante componente dell’Assemblea Costituente, che fu Giuseppe Dossetti, pose il problema del “vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale”, con la definizione di “democrazia sostanziale”.
A segnare in tal modo il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi consacrati negli articoli della prima parte della nostra Costituzione. Fra essi i diritti economico-sociali.
Una riflessione impegnativa con l’ambizione di mirare al “bene comune” che non è il “bene pubblico” nell’interesse della maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno, al tempo stesso; di tutti e di ciascuno, secondo quanto già la Settimana Sociale del ’45 volle indicare.
Il percorso dei cattolici – con il loro contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinaria alla democrazia fu condizionata dalla “questione romana”, con il percorso accidentato della sua soluzione.
Ma già l’ottava Settimana Sociale, a Milano, nel 1913, non aveva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e alla Patria – quest’ultima posta più in alto dello Stato – sollecitando, contemporaneamente, il diritto di respingere – come venne enunciato – ogni tentativo di “trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante istituzioni ostili… mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi nell’adempimento di quei doveri che alluna e all’altro ci legano”. Una espressione di matura responsabilità.
Il tema che veniva posto, era fondamentalmente un tema di libertà – anche religiosa – e questo riguardava tutta la società, non esclusivamente i rapporti tra Regno d’Italia e Santa Sede.
Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione della Settimana, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle espressioni di un giurista eminente – poi costituente – Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini.
La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o di utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce.
Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale.
Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola.
Lo fece Tosato con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un principe”. Esprimeva un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.
La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile per qualunque Istituzione, a partire dalla Presidenza della Repubblica, per una leale e irrinunziabile vitalità democratica.
Guido Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano, e poi statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana di Firenze del ’45, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una “forma di vita – come disse – più alta e universale”, con la presenza di elementi costanti, “categorie etiche” le definì, e di elementi variabili, secondo le “esigenze storiche”, ponendo in guardia dei rischi posti da una eccessiva rigidezza conservatrice e da una troppo facile flessibilità demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere indietro verso la dittatura.
Su questo si basa la distinzione tra prima e seconda parte della nostra Costituzione.
Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane della contesa politica. Come avviene con la frequente tentazione di inserire richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, che del resto – per effetto della saggezza dei suoi estensori – regola tutti questi aspetti comunque, in base ai suoi principi e valori di fondo.
La Costituzione seppe dare un senso e uno spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l’adesione ad essa ha coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l’unità e la coesione degli italiani.
Spirito prezioso, come ha ricordato di recente il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno ai valori supremi di libertà e democrazia è il collante irrinunciabile della nostra comunità nazionale.
Pio XII, nel messaggio natalizio del 1944, era stato ricco di indicazioni importanti e feconde.
Permettetemi di soffermarmi su quel testo per richiamarne l’indicazione che, al legame tra libertà e democrazia, unisce il tema della democrazia connesso a quello della pace.
Perché la guerra soffoca, può soffocare, la democrazia.
L’ordine democratico, ricordava il Papa, include la unità del genere umano e della famiglia dei popoli. “Da questo principio – diceva – deriva l’avvenire della pace”. Con l’invocazione “guerra alla guerra” e l’appello a “bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali”.
Un grido di pace oggi rinnovato da Papa Francesco.
Non si trattava di un dovuto “irenismo”, di uno scontato ossequio pacifista della Chiesa di fronte alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.
Era, piuttosto, una ferma reazione morale che interpreta la coscienza civile, presente certamente nei credenti – e, comunque, nella coscienza dei popoli europei – destinata a incrociarsi con le sensibilità di altre posizioni ideali.
Prova ne è stata la generazione delle Costituzioni del Secondo dopoguerra, in Italia come in Germania, in Austria, in Francia.
Per l’Italia gli art. 10 e 11 della nostra Carta, volti a definire la comunità internazionale per assicurare e pervenire alla pace.
Sarebbe stato il professor Pergolesi, sempre a Firenze 1945, ad affermare il diritto del cittadino alla pace, interna ed esterna, con la proposta di inserimento di questo principio nelle Costituzioni, dando così vita a una concezione nuova dei rapporti tra gli Stati.
Se in passato la democrazia si è inverata negli Stati – spesso contrapposti e comunque con rigidi, insormontabili frontiere – oggi, proprio nel continente che degli Stati è stato la culla, si avverte l’esigenza di costruire una solida sovranità europea che integri e conferisca sostanza concreta e non illusoria a quella degli Stati membri. Che consenta e rafforzi la sovranità del popolo disegnata dalle nostre Costituzioni ed espressa, a livello delle Istituzioni comunitarie, nel Parlamento Europeo.
Il percorso democratico, avviato in Europa dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, ha permesso di rafforzare le Istituzioni dei Paesi membri e di ampliare la protezione dei diritti dei cittadini, dando vita a quella architrave di pace che è stata prima la Comunità europea e adesso è l’Unione.
Una più efficace unità europea – più forte ed efficiente di quanto fin qui siamo stati capaci di realizzare – è oggi condizione di salvaguardia e di progresso dei nostri ordinamenti di libertà e di uguaglianza, di solidarietà e di pace.
Tornando alla riflessione sui cardini della democrazia, va sottolineato che la democrazia comporta il principio di eguaglianza – poc’anzi richiamato dal Cardinale Zuppi – perché riconosce che le persone hanno eguale dignità.
La democrazia è strumento di affermazione degli ideali di libertà.
La democrazia è antidoto alla guerra.
Quando ci chiediamo se la democrazia possiede un’anima, quando ci chiediamo a cosa serva, troviamo agevolmente risposte chiare.
Lo sforzo che, anche in questa occasione, vi apprestate a produrre per la comunità nazionale, richiama le parole con cui il Cardinale Poletti, nel 1988, alla XXX assemblea generale Conferenza Episcopale, accompagnò, dopo vent’anni, la ripresa delle Settimane Sociali: “diaconia della Chiesa italiana al Paese”.
Con il vostro contributo avete arricchito, in questi quasi centoventi anni dalla prima edizione, il bene comune della Patria e, di questo, la Repubblica vi è riconoscente.
La nostra democrazia ha messo radici, si è sviluppata, è divenuta un tratto irrinunciabile dell’identità nazionale – mentre diveniva anche identità europea – sostenuta da partiti e movimenti, che avevano raggiunto la democrazia nel corso del loro cammino e su di essa stavano rifondando la loro azione politica nella nuova fase storica.
Oggi dobbiamo rivolgere lo sguardo e l’attenzione a quanto avviene attorno a noi, nel mondo sempre più raccolto e interconnesso.
Accanto al riproporsi di tentazioni neo-colonialistiche e neo-imperialistiche, nuovi mutamenti geopolitici sono sospinti anche dai ritmi di crescita di Stati-continente in precedenza meno sviluppati, da tensioni territoriali, etniche, religiose che, non di rado sfociano in guerre drammatiche, da andamenti demografici e giganteschi flussi migratori.
Attravesiamo fenomeni – questi e altri – che mutano profondamente le condizioni in cui si viveva in precedenza e che è impossibile illudersi che possano tornare.
Dalla dimensione nazionale dei problemi – e delle conseguenti sfere decisionali – siamo passati a quella europea e, per qualche aspetto, a quella globale.
È questa la condizione della quale siamo parte e nella quale dobbiamo far sì che a prevalere sia il futuro dei cittadini e non delle sovrastrutture formatesi nel tempo.
All’opposto della cooperazione fra eguali si presenta il ritorno alle sfere di influenza dei più forti o meglio armati – che si sta praticando e teorizzando, in sede internazionale, con la guerra, l’intimidazione, la prevaricazione – e, in altri ambiti, di chi dispone di forza economica che supera la dimensione e le funzioni degli Stati.
Risalta la visione storica e la sagacia di Alcide De Gasperi con la scelta di libertà del Patto Atlantico compiuta dalla Repubblica nel 1949 e con il suo coraggioso apostolato europeo.
Venti anni fa, a Bologna, la 44^ Settimana si poneva il tema dei nuovi scenari e dei nuovi poteri di fronte ai quali la democrazia si trovava.
È necessario misurarsi con la storia, porsi di fronte allo stato di salute delle Istituzioni nazionali e sovranazionali e dell’organizzazione politica della società.
Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare le basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono né esclusivamente istituzionali né esclusivamente sociali, interagiscono fra loro.
Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono diritti politici e sociali dei cittadini e dei popoli concorrere insieme alla definizione di un futuro comune.
Vogliamo riprendere per un attimo l’Enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI: “essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, salute, una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini, godere di una maggiore istruzione, in una parola fare conoscere e avere di più per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi – diceva -, mentre un gran numero di essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio questo legittimo desiderio”.
Vi è qualcuno che potrebbe rifiutarsi di sottoscrivere queste indicazioni?
Temo di sì, in realtà, anche se nessuno avrebbe il coraggio di farlo apertamente.
Anche per questo l’esercizio della democrazia, come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio voto nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro inscindibili – libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa. Né si tratta di una questione limitata ad ambiti statali.
Mons. Adriano Bernareggi, nelle sue conclusioni della Settimana Sociale del ’45, – l’abbiamo poc’anzi visto nelle immagini – argomentò, citando Jacques Maritain, che una nuova cristianità si affacciava in Europa.
L’unità da raggiungere nelle comunità civili moderne non aveva più un’unica “base spirituale”, bensì un bene comune terreno, che doveva fondarsi proprio sull’intangibile “dignità della persona umana”.
Questa la consapevolezza che è stata alla base di una stagione di pace così lunga – che speriamo continui – nel continente europeo.
Continuava l’allora Vescovo di Bergamo, “la democrazia non è soltanto governo di popolo, ma governo per il popolo”.
Affrontare il disagio, il deficit democratico che si rischia, deve partire da qui.
Dal fatto che, in termini ovviamente diversi, ogni volta si riparte dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole.
Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia.
Don Lorenzo Milani esortava a “dare la parola”, perché “solo la lingua fa eguali”. A essere, cioè, alfabeti nella società.
La Repubblica ha saputo percorrere molta strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue Istituzioni non si esaurisce mai.
Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia.
Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea.
Ebbene, battersi affinché non vi possano essere più “analfabeti di democrazia” è causa primaria e nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere.
Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme.
Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a ritrovarsi in questo cammino.