Col nuovo Pastore, l’arcivescovo don Alessandro Damiano, anche la Chiesa Agrigentina si interroga sulla pastorale
Quale Chiesa dopo la pandemia ? Una domanda che in questo tempo si pongono non pochi anche nell’agrigentino, dove si tocca pure quasi con mano l’anelito a voler tornare alla cosiddetta normalità, senza più quelle norme che da molti mesi hanno condizionato e modificato il nostro stile di vita, non solo dal punto di vista pratico, ma anche, in qualche modo, nei sentimenti e nella stessa psicologia personale e relazionale.
Concretamente, anche se il pensiero va subito all’uso obbligatorio della mascherina, in effetti si anela soprattutto all’abolizione degli altri divieti riguardanti il coprifuoco, le distanze, la possibilità di incontri comunitari e quindi di aggregazione sociale, senza limitazione nel numero ecc. ecc.
In questo contesto, anche la Chiesa Agrigentina, guidata dal nuovo Pastore don Alessandro Damiano (nella foto), si interroga ed ha il dovere di farlo, perché anche lei convinta che dopo avere osservato ed invitato ad osservare tutte le norme prudenziali per non favorire il contagio del coronavirus, nulla sarà più come prima, avendo questa terribile esperienza vissuta, profondamente inciso nella vita di ognuno.
Premesso quanto sopra, si avverte una profonda sintonia con Papa Francesco, che più volte ha fatto osservare che dopo questa esperienza non si esce uguali, cioè come prima, ma migliori o — Dio non voglia !— peggiori.
L’impegno e l’augurio allora non può che essere quello di uscirne migliori.
Come Chiesa, oltre all’impegno personale di ciascuno, c’è la possibilità di ricevere giovamento dalle indicazioni del Magistero e da quegli esperti, che, con studi particolari, nelle diverse facoltà teologiche, hanno da sempre seguito l’evolversi degli eventi, per favorire un migliore acculturamento delle verità di fede, finalizzate alla salvezza dell’uomo, unitamente alla migliore strategia pastorale, che, quando indovinata, con la luce e la forza dello Spirito, vede premiato anche lo sforzo umano, nella linea di un maggiore coinvolgimento, della crescita del senso di responsabilità nel vivere e nell’incarnare il messaggio evangelico, unicamente finalizzato – come ci ha ammonito Gesù – al possesso della vera gioia nel senso più pieno possibile.
In questo senso è utile porre all’attenzione di tutti quanto si legge in questi giorni sulle riviste di pastorale, in cui, per esempio, si raccomanda anzitutto che, in campo ecclesiale, tornando alla “normalità”, la cosa prioritariamente da evitare è il “virus” di un ritorno al passato”.
A nessuno sfugge la forza del linguaggio, a mio giudizio volutamente provocatorio, per dire di evitare assolutamente che sia nella prassi parrocchiale di routine, sia ( o forse, anzi ! ) in quella Curiale, parimenti di routine, si torni al passato, ritornando ad operare come prima, …e come se nulla fosse successo.
E Papa Francesco, – (la cui freschezza e genuinità evangelica di approccio anche sui problemi più scottanti continua positivamente a meravigliare e fare riflettere) – sembra proprio sulla stessa lunghezza d’onda, specie quando proprio di fronte al dramma della pandemia, afferma che “…peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, rinchiudendosi in noi stessi”.
Il grande Leonardo Sciascia, sicuramente una delle menti più illuminate del secolo scorso, ebbe a scrivere che “…in Sicilia, c’è molta religiosità e poca fede”.
Ed indubbiamente sono i pastoralisti di oggi a rilevare che nella nostra Italia c’è facile accomodamento, se non proprio appiattimento su tante “esteriorità liturgiche”,…- con troppo “ devozionismo miracolistico” , e “tanta religione senza un briciolo di fede”.
Un nuovo stile di Chiesa e di prassi di vita cristiana ,deve portraci a contribuire, anche come cattolici italiani, ad una “globalizzazione della solidarietà ed ad una ripartizione dei beni comuni…per ridurre anche il fossato tra ricchi e poveri, accresciutosi in tempo di pandemia”.
Si facciano pure i Piani Pastorali. Ed in diocesi ne sappiamo qualcosa! ma si evitino assolutamente, (come già fortunatamente avviene da alcuni lustri a questa parte nella nostra diocesi ) che ci siano delle esagerazioni. Come avvenuto in un più lontano passato, sul finire degli anni ’80 ed inizio degli anni ’90, …. quando forse si è rasentato un certo tipo di feticismo del PIANO. Il che, inevitabilmente, nelle direttive pastorali, portava a privilegiare la forma sulla sostanza. Se è vero che – come io ben ricordo – in un’accesa riunione pastorale, il Vescovo del tempo, Mons. Carmelo Ferraro, saggiamente si sentì in dovere di precisare che “Il Piano Pastorale……è come il fango di cui si è servito Gesù per restituire la luce degli occhi al cieco nato”.
E naturalmente, viene da aggiungere, che alla luce degli occhi bisogna aggiungere un altro tipo di luce; una luce ancora più preziosa e salvifica, per costruire una Chiesa sinodale, capace di discernimento, respirando bene a due polmoni, quello del clero e quello dei Christifideles laici.
Diego Acquisto
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