La portata ecumenica della «Gaudete et exsultate»

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L’esortazione apostolica Gaudete et exsultate è un documento che può essere definito di portata ecumenica nel senso più ampio e preciso della parola. Innanzi tutto perché lascia intravvedere il suo personale cammino spirituale, che lo avvicina a tutti. Poi perché l’abbondanza di citazioni scritturistiche colloca le sue riflessioni in un ambito spirituale cristiano di fatto interconfessionale. E in terzo luogo perché chiama persone e comunità di tutto il mondo a una santità concreta, laica e pragmatica.

Se dovessimo rispondere alla domanda su quanto tempo abbia impiegato Bergoglio a scrivere questo testo, dovremmo rispondere: i quasi cinquant’anni di sacerdozio. Francesco parla dalla sua esperienza di santificazione cristiana e ci permette di conoscere le sue guide spirituali. Così avviene quando scrive che bisogna confrontarsi con la propria verità invasa dal Signore (cfr. n. 29); o riflette sulla chiamata di Dio a essere santi che si realizza senza paura perché la nostra umanità e la nostra debolezza sono aiutate dalla grazia liberatrice dello Spirito santo (cfr. n. 34); o ancora sulla santità che tocca le piaghe umane per riconoscere loro dignità (cfr. n. 98).

Il testo mette in luce nel terzo capitolo come preghiera e azione s’intreccino nelle beatitudini evangeliche, mentre nel capitolo quarto sono presentati gli elementi della santità: sopportazione, pazienza, mansuetudine, gioia, senso dell’umorismo, audacia, fervore, preghiera. Tenendo sempre presente la storia della propria vita e riconoscendo in essa i segni della misericordia di Dio.

Per quanto riguarda la sua portata ecumenica, l’abbondanza di citazioni, soprattutto dei vangeli, fa sì che i lettori non cattolici del testo, come i viandanti di Emmaus, sentano ardere il loro cuore nella spiegazione delle Scritture. All’inizio poi un intero paragrafo è dedicato all’ecumenismo e alla chiamata alla santità di un solo popolo di Cristo: «La santità è il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita “segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo”. D’altra parte, san Giovanni Paolo II ci ha ricordato che “la testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti”», definita dallo stesso Pontefice «un’eredità che parla con una voce più alta dei fattori di divisione» (n. 9).

Tutto il documento è una chiamata a una vita santa in termini universali e quotidiani: «Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (n. 14). Fino alle periferie delle quali lo stesso pontefice si riconosce originario, debitore e missionario: «Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo» perché «Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì» (n. 135).

di Marcelo Figueroa
(L’Osservatore Romano 11 aprile 2018)

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