Ancora sull’omelia del Card. Montenegro per S. Calogero

0

Ci sentiamo proprio di riprendere ancora qualche considerazione sull’omelia del card. Francesco Montenegro per la festa di S. Calogero, accogliendo la sfida di qualche interpretazione distorta …e questa sì “blasfema”…..blasfema ed assurda.

Premettiamo che si tratta di un’omelia evangelicamente dirompente, con passaggi decisamente forti e magari davvero inusuali nell’omiletica ordinaria, sicuramente con l’unico scopo di scuotere le coscienze sul tema-migranti, nel ripetersi di terrificanti tragedie con decine e decine di morti, mentre si chiudono i porti che prima si aprivano e l’Unione Europea sembra volere continuare a mantenere lo stesso deprecabile atteggiamento di sostanziale disinteresse, pur con qualche piccola apertura di eccezione.
In questo clima, l’omelia del cardinale Montenegro, per scuotere sullo scottante tema-migrazioni la cultura italiana anzitutto, ma sicuramente e forse più precisamente, quella europea, in considerazione che è troppo evidente che nessuno Stato da solo può far fronte ad un problema epocale così gigantesco.
Un’omelia allora, vista in questa ottica, che ci sembra in singolare e perfetta sintonia anzitutto con il magistero di Papa Francesco, ma anche con quello dei Pontefici precedenti.
Un messaggio comunque forte e quindi commisurato all’attuale situazione italiana e soprattutto europea.
Perché il nostro pastore cardinale don Franco, oltre ad essere presidente di Caritas Italiana, riceve da Papa Francesco spesso, proprio su questa problematica incarichi speciali, … a livello più vasto.
Tra le frasi più forti ed incisive dell’omelia , il richiamo che “poveri e migranti sono un termometro per la nostra fede. Non accoglierli, soprattutto chiudendo loro il cuore, è non credere in Dio.”… “Credere nel Dio della vita significa rifiutare ogni complicità con la cultura della morte… come un’economia che sacrifica i più deboli, il benessere che scarta chi è considerato un peso sociale, i consumi che avvelenano tutto: mari, aria, cibi, e soprattutto il cuore dell’uomo”,… “essere credenti significa impegnarsi per una società e città più giusta, scegliere la trasparenza, la legalità, l’onestà, l’attenzione per i poveri e gli immigrati, offrire rispetto e amicizia a chi è disprezzato ed emarginato”… E’ Gesù a venire da noi su un barcone, è lui nell’uomo o nel bambino che muore annegato, è Gesù che rovista nei cassonetti per trovare un po’ di cibo. Sì, è lo stesso Gesù che è presente nell’Eucaristia”.
E sarebbe proprio soprattutto quest’ultima, la frase giudicata blasfema. Una frase indubbiamente forte ed inusuale ! ma – anche a rigor di logica – (proprio Vangelo alla mano) – davvero profondamente impregnata di spirito evangelico, perché proprio Gesù ha detto che tutto quello che viene fatto al più piccolo, lo ritiene fatto a se stesso. E nell’Eucarestia è proprio Lui che è presente…..come ci dice il catechismo…. “vivo, presente, reale in copro sangue, anima e divinità”. Affermare il contrario, oltre che “contra fidem” è davvero, questo sì blasfemo.
Ma ritorniamo all’omelia, dove con un linguaggio veramente duro e salutarmente dirompente, come in altre omelie ed in momenti particolarmente significativi, Don Franco ha lasciato il segno. Un segno che i mass media stanno diffondendo a vasto raggio, spingendo fortemente – ci auguriamo – ciascuno nel proprio specifico settore, ad impegnarsi e ad agire, nel ruolo che ha, con determinazione e con senso di responsabilità personale, alla luce del Vangelo e del Magistero della Chiesa.
La quale Chiesa sul tema-migrazioni da un quarantennio a questa parte ha stimolato sempre più alla riflessione. E chiaramente lo ha fatto e continua a farlo con quel grande e sano realismo che è tipicamente cristiano; un realismo che, ci sembra, scorrere in un filo rosso dal Concilio a Papa Francesco,… e da questi al cardinale Montenegro.
Il pensiero della Chiesa – per dirla in breve ed in parole umanamente povere – non è né “buonista“, né cinico ma radicalmente evangelico. Perciò con quella forza salutarmente rivoluzionaria che solo il messaggio evangelico possiede. E tutto ciò – naturalmente – lasciando sempre e solo alla politica ed ai politici a cui compete, la responsabilità delle scelte concrete; così come la Chiesa ha sempre insegnato ed insegna, essere la vocazione specifica dei laici organizzare al meglio la città terrena.
E facciamo brevemente sintesi della riflessione della Chiesa, partendo del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), che nella Costituzione pastorale “Gaudium et spes”, ha ricordato che “la Chiesa cammina insieme con l’umanità tutta, per cui le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo”.
E dopo il Concilio tutti i Pontefici, possiamo dire che hanno messo al centro il comandamento di Dio al Popolo di Israele: “Amate lo straniero, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”.
A partire da Paolo VI che conclude l’’Enciclica “Populorum progressio” con la profetica affermazione che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” e che la pace non può ridursi alla sola assenza di guerra. In ciò seguendo il criterio del Vangelo, legato alla realtà… e di una realtà che contempla Cristo con il suo comandamento d’amore, che non è mai ideologico.
A Giovanni Paolo II che ha stimolato ad un “arricchente dialogo interculturale ed interreligioso che suppone un clima permeato da mutua fiducia”, ricordando comunque che “un’applicazione indiscriminata (dell’immigrazione) arrecherebbe danno e pregiudizio al bene comune delle comunità che accolgono il migrante”.
A Benedetto XVI che nel 2006 ammoniva che , anche se i cattolici devono accogliere i migranti, devono anche lasciare alle “autorità responsabili della vita pubblica di stabilire in merito le leggi ritenute opportune per una sana convivenza”.
E sempre Benedetto XVI in più occasioni ha invitato a prestare una speciale attenzione alla particolare identità, religiosa e culturale, di quelli che professano la religione islamica. Le sue parole precise sono: “La mobilità riguardante i Paesi musulmani merita perciò una specifica riflessione, non solo per la rilevanza quantitativa del fenomeno, ma soprattutto perché quella islamica è un’identità caratteristica, sotto il profilo sia religioso che culturale”. E se mi è consentita una digressione, mi viene subito da pensare al grande valore della tolleranza religiosa, di cui usufruiscono i musulmani in Italia ed in Europa, mentre ai cristiani che si recano in paesi arabi, non solo tutto è vietato come luogo di culto, ma anche come simboli religiosi esterni, perfino – si dice – di esporre una croce sul proprio abito.

E per concludere con Papa Benedetto che proprio nell’ultimo periodo del suo pontificato, prima delle sue coraggiose dimissioni, cioè nel 2013 ribadiva che: “ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune, ma sempre assicurando il rispetto della dignità di ogni persona umana”.
Alla luce di tutto allora… bisogna sapere cogliere bene il messaggio del nostro Pastore cardinale don Franco, sicuramente in sintonia con i pontefici precedenti e soprattutto, visibilmente, con Papa Francesco che già nel maggio 2016 in una intervista, ebbe a dire:
“Non siamo in grado di aprire le porte in modo irrazionale. La domanda fondamentale da porsi è perché ci sono così tanti migranti oggi e il problema sono le guerre… in particolare i trafficanti di armi”.
E nel novembre successivo sempre durante una conferenza stampa, Papa Francesco ha detto:
“in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: …. fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti…., faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più. Ma sempre il cuore aperto: non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga. Qui, si paga politicamente; come anche si può pagare politicamente una imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare”.
Un pensiero quest’ultimo ripetuto nella sostanza proprio recentemente, appena qualche settimana fa, di ritorno dall’incontro ecumenico di Ginevra, in cui ha parlato della necessità di tenere presenti i criteri di sempre: “Accogliere, accompagnare, sistemare, integrare”. Ogni governo perciò “deve agire con la virtù della prudenza”.
L’attuale scenario mondiale impone sicuramente alle istituzioni ed anche alla Chiesa un’approfondita analisi dei cambiamenti strutturali intervenuti, quali la globalizzazione dell’economia e della vita sociale. La convergenza di razze, civiltà e culture all’interno degli stessi ordinamenti giuridici e sociali pone dovunque un problema urgente di convivenza. Problema che, da nessuna istituzione, può essere ignorato. Nell’affrontarlo, anche alla luce della saggezza cristiana, non pare consigliabile dimenticare che chi guida una nazione ha degli obblighi verso di essa e verso chi si è affidato ai propri governanti per assicurarsi sicurezza e benessere.
Ragionevolmente, nessuno è chiamato a rovinarsi per il prossimo, ma nessuno altresì è esentato dallo stendere la mano verso il povero se vuole dirsi cristiano.
Oltre ai mezzi si richiede spirito di fraternità, voglia di condividere la vita, riconoscendo nel prossimo un fratello.
E chiaramente per quanto riguarda i mezzi, sia per il singolo, sia per lo Stato, tutto è condizionato alle possibilità di ciascuno, pur tenendo conto dell’insegnamento di Cristo di non dare solo il superfluo.
Diego Acquisto

Leave A Reply

Your email address will not be published.

This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish. Accept Read More